MITO e CINEMA


a cura di:
Gianni Actis Barone
con opere di:
Luigi Mastrangelo
Luigi Ontani
Mario Volpi
Wim Wenders
Si entra nel mito quando si entra nel rischio, e il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi. Più che una credenza è un vincolo magico che ci stringe. E’ una fattura che l’anima applica a se stessa. (Socrate)


La coscienza del peccato impone all’uomo - pagano o monoteista che sia - il sacrificio. E’ un patto di riconoscenza che vogliono gli dèi e forse, anche, di riconoscibilità. Ma il sacrificio appartiene al rito, è un atto dovuto, una forma scaramantica di ripetizione. Nell’enfasi ogni dio suggella una forma di predominanza grave e perentoria, catartica e dispensatrice. Se “la morte è la paga del peccato”, il sacrificio è una sorta di rateizzazione anticipata del castigo, un mutuo per la casa delle ombre o dello spirito o dell’anima migratoria della metempsicosi: in una parola del nulla sinonimico. Il tutto a tassi da strozzinaggio. Attorno al rito nascono le storie che riconducono al rito e ogni storia, attraverso un processo di moltiplicazione, fa vivere più vite e più morti alla stessa figura. Queste vite e queste morti sono presenti una nella storia dell’altra. Sono il mito coerente e cronologicamente possibile degli dèi e degli eroi. Agli uomini resta il piacere di ascoltarle.
La prima volta che Zeus tradì Hera fu con Io. Io era la sacerdotessa di Hera e, in quanto tale, doveva ripetere l’immagine della dea che serviva. Doveva vestirsi come Hera, imitarne l’aspetto e il portamento. Tradire l’originale per la copia non significò, per Zeus (in tutti i sensi), un semplice capriccio ma cercare quel milionesimo di differenza che certamente doveva esistere tra le due. La stessa cosa dirà Thomas a Teresa nell’Insostenibile leggerezza dell’essere . Quel milionesimo di differenza è la spinta che produce il disordine alla ricerca del nuovo. Cosa sia poi questo nuovo, questo significato, non è dato di saperlo: né agli dèi, né agli eroi, tanto meno agli uomini, perché tutti sono soggetti alla necessità. Ad Ananke, la necessità, prima regina, ancor prima della luce, che Zeus troverà dopo aver fagocitato l’universo, non si sfugge. E tutti devono subirla. Parmenide stesso ammetterà che l’essere è avvolto dal vincolo della necessità, un vincolo ricurvo che trattiene ogni cosa entro un limite. Gli dèi, però, non amano il vincolo di Ananke. Amano il sacrificio, la vita eterna, l’intreccio amoroso, lo stupro, la convivialità. In una parola, la loro eterna vita non avrebbe alcun senso senza la vita limitata degli eroi e degli uomini.
Poi gli dèi antichi diventano indifferenti o forse è indifferente agli uomini se gli dèi esistano o meno. Non così per il mito, che ogni volta ci stupisce nella sua eco più profondamente umana e ogni volta risveglia in noi il desiderio di nuovi significati.
Naturalmente il mito non è solo greco. Così come il mistero può nascere in un qualunque mercato, tra facezie e serietà, il mito può nascere o rinascere più a oriente della Grecia o più a occidente. Non a caso il romanzo L’alchimista nasce da un soggetto tratto dalle
Mille e una notte e non c’è nulla di male che sia così, perché il mito risorge di continuo e su di lui risuonano miti di portata simile.
Luigi Ontani, per esempio, non riscopre il mito ma lo suscita in noi. Il suo gioco è anche il suo giocattolo. Il travestimento favolistico è lo smalto di Heros, i calembours sono i doppi e i tripli significati del suo travestimento. Adagiato in uno spazio che non cessa di mutare, perché il suo apparire lo muta (e non serve che intervenga - come le Danaidi col fango della palude di Lerna), l’odisseo Ontani ci racconta storie sorprendenti senza il rimpianto o la solennità dell’ultimo eroe omerico. Nel lontano oriente, nel vicino oriente, nel barocco misurato, nell’ultimo ottocento raffinato, fino a noi, Luigi Ontani trascorre il suo spazio a viaggiare nel tempo. E impiega così bene il suo tempo che lo spazio si contrae fino all’orizzonte di un balzo, per poi percorrere altre strade e ripercorrere altri tempi. So per certo che Luigi Ontani ha conosciuto Mercuzio, e con lui ha parlato della Regina Mab. Ancora oggi, per via di quel segreto, sussurra all’orecchio di ciascuno parole che rincuorano i sogni. E i sogni riconducono al mito.
Sempre a est di Atene, nell’area Zen, area, per altro, in continuo rialzo, gli dèi vivono tempi arcadici dilatati all’ombra di alberi parafluviali. Lì si consumano i sacrifici della purificazione con animo sereno. Lo Zen non è teosofia che si possa spiegare solo con riferimenti metafisici. Anzi, è cosa oscura se non per le tracce comuni che ciascun adepto deve seguire senza porsi il problema se valga la pena seguirle o meno. Né si sa se tutti raggiungano il Satori: sorta di illuminazione interiore fugace e personalissima. Ciò che io so è che Luigi Mastrangelo abita spessissimo quei luoghi. A volte lo trovo come un San Sebastiano non martire, appoggiato con la schiena su qualche tronco ricurvo, a contemplare oltre la mia figura le stanze vuote di un paradiso dove gli dèi sostano come in un ostello per la gioventù. Sempre in fuga, come dice Lucrezio, da Roma a Capri, da Capri a Roma. Non per noia, naturalmente, ma per necessità. Lo trovo, bucolico, assieme ad animali cristianissimi o a zufolare in cima a pacifiche colline come un Eumeo che non abbia né fissazioni particolari, né tempo da perdere, né tempo da guadagnare. In fondo, Luigi Mastrangelo è un mitografo che ragiona con stile acrilico e nei suoi colori non c’è mai violenza perché il presente la cancella e, a differenza di Antonio, preferisce che il bene non venga mai sepolto con le ossa di chi l’ha compiuto.
Wim Wenders ha fortificato i suoi miti alla cineteca del Centre Pompidou. La ruota di Ananke ha girato per lui sostenendolo sui ritmi del tempo. Le sue figure si muovono senza fissa dimora, come in Paris Texas, alla ricerca di una causa che le spinga verso altre imprese. E sempre il tempo, che sembra eccedere in ripensamenti, improvvisamente accelera verso un fine intermedio che non è la fine, ma l’inizio di un nuovo eterno temporeggiare. Gli angeli di Wenders (Il cielo sopra Berlino, Così lontano così vicino) sono gli dèi minori per una speranza che non sempre è a lieto fine ma in fondo salva gli uomini e sembra indicarli come i nuovi e possibili abitanti di un Olimpo occidentale. Gli dèi di Wenders non giocano a farla franca con le debolezze umane e non sono mitomani come Apollo e Dioniso che pretendono l’assoluta fedeltà senza dare in cambio che una loro terribile o erotica presenza. Non chiedono sacrifici ma si sacrificano. La colpevolezza dell’uomo non fa loro vagheggiare un debito di coscienza servile. Certo sono dèi minori, ma la porta di Brandeburgo non è Gordio e non spiana continenti con un colpo di spada.
Mario Volpi fotografa miti sullo sfondo delle sue opere. I miti che ci presenta sono famosi personaggi del cinema come Orson Welles e Marilyn Monroe. Ma non è questo, il dato fondamentale. Gli uomini-mito, immersi, anzi, troneggianti in architetture forse possibili ma altamente improbabili stanno dietro a piccole figure umane. Sono figure senza volto che presto, come in un gioco psicologico, diventano sfondo, lasciando all’uomo-mito il compito di ergersi a figura. Ancora una volta interviene il tempo. Suo compito è quello di distogliere l’attenzione immediata da ciò che non sia l’uomo-mito per poi ricomporre l’immagine partendo da quel fulcro verso una voluminosa periferia che sembra non voler interferire con l’uomo-mito ma sostare, muta, in attesa che la pellicola riparta a completare un lungo e problematico percorso. Nel caso di Mario Volpi l’indifferenza dell’uomo per il mito è compensata dalla vastità di superficie dell’uomo-mito che ci ricorda un motto pindarico:
La più folle razza tra gli uomini
è quella di chi spregia ciò che ha intorno e punta lo sguardo oltre,
in caccia dell’inconsistente con vane speranze.
Gianni Actis Barone



Opere in catalogo:
LUIGI ONTANI - Volare ginestrale, 1975 - fotografia, cm. 30 x 47
LUIGI MASTRANGELO - Autunno, 1997 - acrilico su tela, cm. 70 x 100
WIM WENDERS - fotogramma daCosì lontano così vicino, 1993
MARIO VOLPI - O.W. ,1996 - fotografia, cm. 70 x 100
Per vedere le immagini ingrandite fare click sull'immagine piccola o sul titolo dell'opera




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