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ANTROPOECCENTRICO di Gianni Actis Barone
Edizioni dell’Ortica Communication - Bologna Italy 1998

Del romanzo , presentato in Italia da filosofi, critici letterari e semiologi, è in corso una traduzione integrale in lingua inglese e spagnola


In questo romanzo/racconto nero/filosofico, tutto il tessuto narrativo tende, a mio parere, a lacerarsi, sciogliersi, sgommarsi e tuttavia la sostanza riflessiva distende al fondo un supporto filamentoso bene articolato che consente il moto ma non concede, non ammette l’interna, definitiva lacerazione. Questo movimento ondivago, da nave irretita in un mare in tempesta, può capitare che produca all’inizio un sentimento di spaesamento, immersi come si è - come ci si sente - fra tensioni così contrapposte. Ma procedendo, l’articolazione sempre più compatta - ripeto - e anche l’adattamento del lettore a questo, solo apparente, spaesamento, consentono di collocarci nella giusta linea di intendimento e di appagamento, anche. Perché è certo che il testo non delude; non ci disarma affatto. Ma come si articolano i due piani narrativi in apparenza divergenti, contrapposti? Posso rispondere per me: su un enunciato riflessivo fortemente aggressivo e ben collocato dentro le problematiche di fondo del nostro tempo; e su un racconto vero e proprio, un poliziesco apparentemente di vecchia scuola ma illustrato accompagnato e infine risolto con l’abbrivio di una ironia scaltramente perseguita e alimentata. Insomma, da una parte i proclami del Pontefice Rosso di Climax alla Nazione - che sopravvengono a inserirsi senza cautela, anzi con prepotenza, nella trama del “giallo”; e dall’altra, i personaggi di questa vicenda precipitevolmente condita di un “nero” allucinante e costellata di episodi anche minimi, marginali. E, il tutto, dentro a una unità di tempo e d’azione: un treno in movimento - e poi fermato e poi di nuovo avviato - e tre quattro giornate di una stagione qualsiasi, ma non ventosa e senza neve. Non c’è nulla di burbero né di eccedente dentro a queste pagine; ma una secchezza utilissima che non si sottrae, comunque, a concedersi precise delucidazioni di scrittura. “Il corridoio (del treno) era buio. Più scuro di quando era entrata. Un buio annacquato, tendente al pallido. Ma tetro. E freddo, nonostante l’aria già primaverile del mattino. Un buio pieno di risorse. Carico, ancora, dei residui della notte” (pag. 32). Questo, come esemplificazione descrittiva di un interno. Ne dispongo un secondo, per un esterno (a pag. 34 ): “Relèna sguardò volutamente fuori. La valle, verde e coltivata, sementata, e, a tratti, arboriforme, si estendeva per decine di chilometri senza l’impiccio di un colle o di una montagna ruvida e sassosa. Nuvole dense di nero industriale (bellissime) comparivano all’improvviso precipitando come aquile sull’acqua pigra dei riflussi...”. E anche per le figure in carne e ossa, per i personaggi, dentro la trama narrativa, si può ben dire che ognuno è lì fissato come una farfalla spillata sotto il vetro. Dunque non è un’opera facile, questa che abbiamo sotto gli occhi; né è un’opera che conceda o sopporti solo una gradevolezza (sia pure aspra) di lettura; perché sempre richiama a una concentrazione senza divagazioni. Per esempio, ogni frase, dei quattro cinque o sei proclami del “Pontefice Rosso”, necessita di un indugio, di una sottolineatura; una fermata per confrontarsi, per richiamare le idee, per verificarle. Tolgo una esemplificazione all’interno di un giro molto denso di scrittura: “l’anima è nei sensi”, dato non come un lemma rigoroso ma come un’apertura determinante, da complicata riflessione generale in atto. A pagina 63: ”Il problema dei giovani, del lavoro, della sovrappopolazione, si risolve non con il controllo delle nascite ma con l’accelerazione della morte”. E a pagina 68: “La sola spiegazione è che Cristo fosse un uomo del futuro. Un viaggiatore del tempo”. Le sottolineature potrebbero accumularsi, ma credo di avere indicato, dal mio punto di vista, un percorso per camminare nelle pagine. Tanto più che, poi, non si può non completare questa mappa, senza almeno la presentazione dei vari personaggi impegnati in diretta; che a me sembrano, con qualche fascino letterario, piuttosto ombre corpose - e talvolta paurose - che individui o donne reali; più da vedere che da toccare. Di sangue, per diretta violenza, ne scorre a fiotti qua dentro, ma sembra, nonostante tutto, che si asciughi in fretta; che tenda a scomparire con poca traccia; mentre restano in evidenza le minime azioni visive dei personaggi; il loro cupo rincorrere la morte; o la violenza della morte, che sovraintende alla vita. Verso la conclusione, il racconto o il “resoconto” di questa forsennata carneficina tende a frantumarsi in una ambiguità simile a lucida nebbia. La finalità delle azioni, i volti, le mani delle persone tendono a dileguarsi, a defilarsi; a non più collocarsi al centro. E la fine del libro potrebbe - forse potrebbe, dico - ricollegarsi al principio per avviare un’altra storia ancora. Dentro a un paesaggio che sembra prolungato nel tempo; più da Tremila che da Duemila vicino; perciò incombe come una totalità già culturalmente introiettata e accettata. Quel grigio bianco, senza quasi colori, che avvicina la giornata attiva più all’allucinazione normalizzata che all’esasperazione ancora conflittuale e non ancora rassegnata. Il racconto ha la sua efficacia anche nel richiamarci a queste urgenti verifiche della ragione.
Roberto Roversi

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CAPITOLO PRIMO
Relena sta sul treno che sta sull’erba. Oltre l’erba c’è la città. Al di là della città sorgono immense piantagioni di grano. Poi altre città. Quindi il mare. E dopo il mare vi sono nuove città. Perché la terra è rotonda e sempre si torna al punto di partenza.

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NON CAPITOLO PRIMO
Proclama del Pontefice Rosso di Climax alla Nazione
(Il Proclama si trova inchiavardato nelle metropolitane, nei treni metropolitani, nelle stazioni, nei treni itineranti, alle fermate d’ autobus, sugli autobus, nelle gallerie importanti , sui quadri Pop, sui tabelloni luminescenti dell’arte concettuale, e, in genere, in ogni altro luogo di sfinimento vitale, compresi i cessi di massa, gli stadi, le vacanze al mare).
Amici e fratelli (compagnons, countrymen, amigos), la Capitale non è il paese dei balocchi. Qui, da noi, il cemento ha un’anima, e l’anima lega più del cemento. Inutile spiegarvi che questa frase non significa niente. Ma proprio perché non significa niente io ve la dico: per mostrarvi quanto leale sia il vostro Pontefice, e con quanta semplicità affronti le complessità del vivere capitolino.

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CAPITOLO SECONDO
Non si può negare che una volta, il Capo, sia stato un uomo mite. Una volta, il Capo, era un ragazzo con la testa sulle spalle. Andava al cinema tutte le domeniche. Studiava con profitto (una scuola per tornitori e gasisti, che nel lavoro di scasso gli è tornata molto utile).
Si dice che rispettasse tutte le ragazze. Le rispettava amorosamente. Tutte quante. Anche le più troie. Difatti, a quel tempo, nessuno lo chiamava “Capo”.
A quel tempo, il Capo, leggeva poesie d’amore. Leggeva Byron. E rabbrividiva ai versi di Lorca. La notte, poi, guardava le stelle e sognava chissà cosa. Ma la sognava sempre con rispetto.
Come sia mutato, nessuno può dirlo. Se qualcuno può dirlo, noi non lo conosciamo.

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SOTTOCAPITOLO: IL CINESE
Il cinese è il complice più vecchio. Non parla il cinese perché a sette anni fu rapito da una coppia di birmani (padre e figlio) cui serviva qualcuno per lavorare la terra. Perché il cinese è fatto a questo modo: dopo un anno non ricorda più quello che ha fatto, quello che sapeva.
A otto anni, invece, non ricordava più d’essere stato bambino. E credeva d’essere un adulto non cresciuto. Perché gli adulti crescono fino a una certa età, e quando s’illudono d’essere cresciuti troppo cominciano a invecchiare. Così, per questa loro superbia, pagano il prezzo della morte.
Comunque, il cinese, di vecchi ne ha conosciuti pochi. Nelle campagne di Rangun, nelle savane sumatre e malesi, nelle giungle del Sarawak, si può morire di tutto, persino di noia. Talvolta si può morire di nostalgia. Ma di vecchiaia mai. Nessuno mai che sia morto di vecchiaia.
I vecchi della Nantuna (famosi soltanto per essere vecchi) che gli avevano insegnato a pescare (professione che il cinese ha scordato l’anno successivo alla sua nuova professione) morivano sempre di qualcosa. Chi di cuore, chi di emorragia cerebrale, chi per un blocco renale. Tiravano gli ultimi sospiri senz’aria. Tre o quattro volte con gli occhi sbarrati, la bava alla bocca. E via.
Ma di vecchiaia, proprio da dire: “Quello è morto di vecchiaia”, nessuno.
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SOTTOCAPITOLO: IL SADICO
Il sadico non è sadico dalla nascita. Non ha visto istituti di correzione. Non ha pianto tra le braccia di un prete consolatore.
Eppure, qualcosa gli ha messo in testa una concezione malvagia della vita.
Come certe anime inquiete, anime che frequentano il mondo (o l’hanno frequentato) il sadico non crede in Dio. Ciononostante, quando si sente in pericolo di vita, prega.
Si mostri buono, questo Dio dei cristiani. Non faccia come il Dio degli ebrei, che fulmina la vista per sette generazioni, trasforma in sale e fuoco le Gomorre, e non perdona mai nessuno, neppure le donne (che come donne non devono ringraziarlo la mattina).
Questo Dio possibilista, scaltro come una volpe, che può salvare il giorno della morte e può salvare il giorno del Giudizio. Questo Dio colto, che ha letto Platone. Raffinato quanto può esserlo l’ultimo degli evangelisti. Acuto intenditore della coscienza. Psicologo. Migliorista. Antistalinista. Questo Dio triplicante e ubiquo. Gestore del big-bang.
Poco umano per essere un Dio.
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SOTTOCAPITOLO: IL DOTTORE
Il dottore espulso dall’Ordine, debole e ubriaco, piccolo e quadrato, stitico.
Se è capitato nel gruppo è perché un gruppo di canaglie, senza un dottore, non è completo. Tant’è vero che il gruppo al quale apparteneva in precedenza ha assunto un nuovo dottore.
Quel gruppo si chiamava, una volta, Ospedale della Misericordia.
E il dottore, che al principio di quel contesto avrebbe accettato di tutto pur di aiutare i malati, finì col diventare cinico e ironico, barzellettiere, nei confronti della morte e della sepoltura.
Assunse un’aria sfocata. Un’aria non aria. L’aria di un medico qualunque. L’aria di qualunque medico.

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CAPITOLO TERZO
(Cassetta registrata e consegnata a Relèna Atridea due giorni prima della partenza del treno).
- Il professor Mendel era un figlio di puttana.
Una sera (quando è stato? Due mesi fa, forse) mi ha detto: “Ho sintetizzato l’anti-anticoncezionale”. Ho creduto che fosse ubriaco, perché, tra l’altro, a cosa servirebbe un anti-anticoncezionale?
L’ho detto a Paulus, un collega del gruppo. Ci ha riso un sacco. Ha detto: “Il professor Mendel mentirebbe anche al suo cane”. Al suo cane, ha detto. Che è tutto dire.
C’è voluto un mese per capire come avesse fatto. E quando l’abbiamo capito, giuro su Dio che credevo di sognare. Un mondo pieno di pance. Un mondo pieno di gravide loro malgrado.
“Dio ama i bambini” sentono cantilenare .“Dio ama i bambini”. E’ Mendel che ama i bambini. Mendel e i suoi isotopi concezionali. Una goccia, ne basta. Sparsa nell’acquedotto della città. Una goccia per cinquant’anni di gravidanza continua. Milioni di arcangeli Gabriele che annunciano la nascita di bambini insospettati. Tutti misti, i bambini. Mescolati tra loro a seconda di come tira il vento.
Ecco che sento qualcuno ghignare (non era Paulus che l’aveva detto?) :“Eh, caro mio, tu dimentichi che la nostra è una civiltà organizzata. D’accordo, tutti questi bambini potranno anche riempirci le orecchie. Ma esiste pur sempre un modo per levarceli di torno. Esiste l’aborto. Con l’aborto risolveremo il problema. Raschieremo uteri e getteremo feti nella spazzatura. Quelli di Mendel, getteremo nella spazzatura. E, già che ci siamo, getteremo pure Mendel nella spazzatura.
Sempre che tu non voglia fantasticare sulla coscienza. Perché allora dovrei ricordarti che la coscienza non esiste, in caso di necessità”. Ora, Relèna, doveva nascondere la fiala e la cassetta.
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CAPITOLO QUARTO
“Tutte uguali, le donne” pensava l’assassino, trascinando Relèna in uno scompartimento.
Una maga (l’assassino non si muoveva mai, senza aver prima consultato le carte) gli aveva predetto che con quella missione, lui, Vestigo Inani, sarebbe entrato a far parte della Storia. Un’entrata solenne, a quanto pare, e duratura.
Relèna sguardò volutamente fuori. La valle, verde e coltivata, sementata, e, a tratti, arboriforme, si estendeva per decine di chilometri senza l’impiccio di un colle o di una montagnola ruvida e sassosa. Nuvole dense di nero industriale (bellissime) comparivano all’improvviso, precipitando come aquile sull’acqua pigra dei deflussi. In quei punti l’aria sapeva di limatura di ferro, e di olio bruciacchiato dai motori, e di anidride mescolata ad anidride (canto vibrante nel mezzo di quella forma definita, che naufragava torbida nel cielo).
- Quella fiala contiene un messaggio - cominciò Relèna - Tu non puoi, distruggerla.
- E chi vuole distruggerla?! - disse Vestigo Inani - Io non so neppure cosa contiene, quella fiala...
Vestigo Inani storse nuovamente le labbra. Per esperienza sapeva che il dolore, in genere, toglie la capacità di mentire. Decine di eroi avevano barattato la tortura con la morte, perché nessun segreto vale più di un’unghia strappata. Magari il cuore, quello soltanto, può valere un segreto. Il cuore, e tutto il resto assieme. Ma per abitudine, non era mai propenso a credere prima della terza conferma. Perché sapeva che c’è gente testarda, a questo mondo. Gente che spera sempre nell’ultimo momento. Che si aspetta che il mondo cambi all’improvviso. Opportunisti feroci, che credono addirittura che gli ideali stiano al di sopra del denaro.
Per questo motivo lasciò partire un secondo cazzotto contro il naso di Relèna. Non un cazzotto spietato, come quello precedente, ma un cazzotto breve, quasi amichevole. Un’ultima parola di avvertimento.

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NON CAPITOLO SECONDO
Proclama del Pontefice Rosso di Climax alla Nazione.
Cari amici, cari fratelli. Connazionali. Cointernazionali. Non so, se Parigi val bene una messa. Non so “cos’è l’uomo più della bestia se del suo tempo egli non fa uso migliore che per mangiare e per dormire”. In fondo: cos’è l’uomo più della bestia? Non lo so.
L’uomo fu concepito dalla mente di Dio, dicono. E la famiglia fu concepita dalla mente dell’uomo.
Danae, mentre dorme, così arrotolata, così fortemente aperta, accoglie nell’albero della vita la pioggia dorata di Giove. E non c’è bisogno di ombrello, per coprirsi da quella pioggia. Né di correre, c’è bisogno. Basta star fermi. Fermi e arrotolati come Danae. Perché è una pioggia che bagna solo dentro, quella. Penetra diritta, fino alle fimbrie, e fa scendere il resto, liquido e senza più valore.
Così, nascono le famiglie. E con la stessa tecnica nascono le società.
Una volta, tanto tempo fa, molto prima che nascesse Dio, prima ancora che nascessero le civiltà rurali e quelle di allevamento, quando ancora l’uomo grugniva e non sapeva di essere una persona (perché non c’era verso di farglielo sapere), a quel tempo, insomma, che corrisponde più o meno a quello dell’Eden, l’uomo andava in giro senza una meta fissa, mangiava ciò che gli capitava, e passava il resto del tempo a grattarsi i pidocchi. Nei giorni dell’amore (quattordicesimo giorno circa della fase lunare) l’uomo, senza saper nulla di ormoni, disperso così nelle lande e nei calanchi, ingroppava tutto ciò che gli capitava a tiro nel raggio di un chilometro. Dalla pecora al cavallo. Dall’uomo alla donna. Dalla donna al bambino. L’uomo non sapeva di commettere peccato, per cui se la godeva senza rimorsi. Ci sono voluti centinaia di migliaia d’anni per fargli capire la differenza. S’è dovuto inventare di tutto, perfino la cultura. E oggi, il risultato sta sotto i nostri occhi, con tutti i problemi che la cancellazione delle origini comporta.

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CAPITOLO QUINTO
Certo, se si prende tutto alla lettera si rischia di restare paralizzati. L’amicizia non è un fatto generico. Non esistono regole di comportamento. Strette. Il tradimento fa parte dell’amicizia, laddove l’istinto di conservazione non cede a nulla. Neppure all’eroismo. E l’istinto di conservazione è un mare vasto, impenetrabile, profondo quanto il genere umano. Per uno può essere il vestito nuovo, per l’altro la candida toga. Ed entrambi, magari, ne faranno una questione morale. Dio mio! Tanti piccoli Robespierre pronti alla ghigliottina “Ma non se ne vede uno, mi creda, non se ne vede uno”. Poi, è un fatto che tanta necessità di pulizia porti alla convinzione d’essere sporchi. Tutti quanti.
- Io parlo dell’amicizia e lui crede che parli all’amico. Io parlo all’amico e lui crede che parli dell’amicizia. La lingua perfetta è un’idiozia, dia retta. Ci vorrebbe una lingua generica al massimo grado. Una lingua incolume da sinonimi. Una lingua guttural-consonantica. Omofonica. Serva degli sguardi e delle dita. Una lingua, insomma, per la quale la bocca serva a poco.

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CAPITOLO SESTO
Negli archivi di polizia l’inquisitore annotò il suo profondo sconforto per la scomparsa prematura del dottore. Certe lacrime gli caddero su carta fotosensibile, duplicando minuscole lacrimucce che evaporarono in fragili bollicine d’aria. Chimica.
Poi si concentrò sulla relazione ufficiale Sulle prime scrisse che il dottore era morto in circostanze sconosciute. Tanto da far temere un omicidio. O un perfetto suicidio. E in questo caso era necessario trovare valide giustificazioni, visto che neppure il dottore s’era premurato di lasciare uno scritto.
Accade, scrisse l’inquisitore, che un semianalfabeta si tolga la vita riempiendo pagine di perdono (anche se i semianalfabeti si suicidano di rado, specificò l’inquisitore). Sono pagine pietose, o degne di pietà, fitte di raccomandazioni e di addii.
E accade, scrisse l’inquisitore, che quando la cultura aumenta le lettere si facciano più scarne e essenziali (una parabola sotto forma di punto interrogativo, dritta al cuore di chi legge. Una raccomandazione. Un muto sarcasmo fatto di allusioni brevi e precise).
Cosicché, il suicidio di un uomo di cultura diviene pur sempre il suicidio di un uomo di cultura. Freddo, magari. E razionale, sotto certi aspetti. Un suicidio che tiene conto della ricchezza più che del denaro. Della vergogna più che dell’onore. Che non ripara ma cancella. Immediato o indolore al massimo grado. Un suicidio per il quale si chiede di non fare commenti. Perché l’uomo di cultura sa che si faranno commenti. E premuroso com’è, teme che qualcuno ne possa soffrire.

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NON CAPITOLO TERZO
Proclama del Pontefice Rosso di Climax alla Nazione
(Il Proclama si trova tra una riga e l’altra dei passa parola. Per cui non è così importante sapere dov’è scritto - non è scritto - ma riconoscerne l’efficacia tra le righe).
Amici e nemici (nemici, soprattutto) beato sia l’uomo mutevole. Colui che ogni giorno cambia opinione e, cambiando opinione, agisce come se mai l’avesse mutata. Quello di cui ci occupiamo oggi (di cui ci occupiamo sempre) è la realtà. E niente, nella realtà è tanto importante da darmi l’idea che potrei farne a meno.
La prima realtà che l’uomo affronta è il lavoro.
L’uomo è una macchina, come sapete. E come tutte le macchine consuma energia. Come tutte le macchine si ripara. Come tutte le macchine perde valore. Ma, a differenza delle macchine, l’uomo può scegliere. Col vantaggio di aumentare il proprio valore. E col rischio di perderlo del tutto: in tal senso la macchina è più fortunata, anche se non lo sa.

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SOTTOCAPITOLO: NOTA A MONTE DI PAGINA
Una delle dimostrazioni più audaci di quanto la natura sia soggiogata dalla tecnologia, di quanto la natura funzioni come archetipo della tecnologia e di come, anzi, la natura ceda con arrendevolezza alla tecnologia, è stata data nel 1960 dal teologo eretico (honoris causa) Lutor Spinoza.
“I miracoli, però, soprattutto i miracoli, sono causa di discussioni rabbiose. Non si vuol credere a fenomeni che sono tecnica per l’uomo contemporaneo: tecnica operatoria, tecnica medica, tecnica scientifica.
“Ma se pensiamo che Cristo fosse un essere, l’Essere, dotato di poteri soprannaturali, in quanto Creatore dell’Universo, allora dovremmo anche chiederci per quale motivo non abbia interferito non già contro la sua morte, ma prima ancora con la storia del suo popolo, liberandolo dalla schiavitù dei Romani, come Mosè fece in Egitto. Teoria del libero arbitrio? Accanimento di forze ostili dell’Universo? Punizione vetero biblica alla vaticinata condanna sulla croce? O, semplicemente, menefreghismo?
“In realtà, la sola spiegazione è che Cristo fosse un uomo del futuro. Un viaggiatore del tempo, capitato per caso nella Galilea di Tiberio. Un medico niente male, se vogliamo. E un funambolo capace. Un immortale (perché no?) in attesa che la Nave Madre tornasse a recuperarlo. Un amante della natura. Un naturista e un naturologo. Che ci spiega che il miracolo (la meccanica dei Greci) è l’agire dell’uomo sull’ambiente dell’uomo. Che la scienza non è soltanto la macchina del progresso, ma la salvezza. Che la scienza è il bene buono del Creato. Per l’uomo, senza dubbio, ma sempre al di sopra della sua vita”.

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CAPITOLO VII
Vista l’enorme difficoltà a proseguire, il treno si fermò di schianto (lasciando, però, questa volta, i passeggeri nella più completa indifferenza. Da sette chilometri, infatti, la velocità era scesa a livelli ridicoli. Anzi, filosofici. Pare che tre filosofi presocratici, seduti in un comparto non fumatori di prima classe, avessero preso a dialogare sul paradosso di Zenone e di come pie’ veloce non potesse, tassativamente, raggiungere il treno).
Lì, a neppure quindici metri di distanza, si impancava il ponte brunito e monumentale sul quale la statua del Pontefice Rosso di Climax avrebbe dominato il mondo.
Si notava, tutt’intorno, un’attività frenetica, febbrile e forsennata Vestigo Inani guardava i lavori senza domandarsene l’utilità. L’utilità doveva trovarsi nei lavori stessi, visto che venivano fatti. E comunque, a lui, interessava poco conoscere l’utilità di un lavoro. E, in genere, l’utilità del lavoro. Il senso stava nel fatto sociale. E cioè nell’evidenza che, socialmente, il lavoro fosse già stato accettato. Piuttosto, la sua sensibilità era puntata sulle piccole cose, sui disbrighi del momento, sulle ripetizioni: il passaggio fulmineo dei camerieri, lo sgravamento delle betoniere, l’oculatezza dei tecnici tra progetto e risultato. Non perché la ripetizione non fosse noiosa, ma perché era la sola a fornire la certezza del lavoro (da ciò si arguiva che Vestigo Inani reputasse lavoro solo quello noioso e ripetitivo).
Inoltre, la ripetizione, forniva al lavoro il significato reale e accessibile della durata eterna. Mentre a Vestigo Inani, quell’esperienza, anche se non vissuta di persona, procurava il piacere metafisico di una sospensione più lunga tra la vita e la morte.
Perché Vestigo Inani era convinto che prima di morire avrebbe potuto rivivere tutta la sua vita. E più lungo fosse stato l’esercizio della vita più tardi sarebbe giunta la morte.

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CAPITOLO VIII
Il colpo di rivoltella, che in un momento di generale silenzio era stato udito oltre la casa del ristoro, e che era subito rimbalzato sulle cronache dei giornali, era la prova evidente di una volontà sterminatrice oltre ogni dire.
Il Capo, avendo compreso che quel proiettile era destinato a lui, appoggiò la birra del teutone tra le mani del teutone più prossimo al teutone scomparso. Si guardò intorno con circospezione (cos’altro avrebbe potuto fare? Era un Capo, non un gregario. Già un uomo qualunque si sarebbe guardato attorno con circospezione. Lui, si guardò intorno con solenne circospezione).
Il Capo ebbe l’impressione che nessuna storia, per quanto stravagante, potesse rassomigliare a quella. E fece una graduatoria dell’incredibile e del vero. Di quanto avrebbe potuto raccontare, se solo fosse stato in grado di raccontare. Di quanto la gente avrebbe potuto cogliere. Di che gente, poi, avrebbe dovuto trattarsi. E quando tutto gli fu chiaro, decise che era meglio fregarsene. La gente, del resto, avrebbe fatto altrettanto.

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NON CAPITOLO QUARTO
Proclama del Pontefice Rosso di Climax alla nazione
(Il Proclama, in realtà, è stato censurato dallo stesso Pontefice Rosso. Steso in due esemplari. Rettificato. Ricorretto a note continue. Rimaneggiato nell’intimità dell’ispirazione, il Proclama aveva il compito di dare chiarimenti sul fine ultimo.)
Germani, nel lungo corso di questi anni (nel lungo corso degli anni a venire) ho cercato (cercherò) di svelarvi la storia dell’uomo. Non parlo della storia degli uomini, o di coloro che hanno creduto di fare la storia. Non parlo dello zenit e del nadir (del resto, io non parlo di astronomia). O della grande armata che, come l’invincibile, fu piccola e vinta. Parlo di ciò per cui opero, germani. Parlo della vostra compiutezza, dello sfinimento che vi coglie in gioventù, quando ancora guardate, estasiati, la morte preposta.
La mia vita fratelli (come faccio a non chiamarvi fratelli, come faccio a chiamarvi fratelli) è l’immagine del verbo (non solo immagine, non solo verbo). Un party per gli eletti (ognuno parla d’altro, il rumore si traduce in rumore. Al termine si ha l’impressione che il tempo trascorso non sia il proprio. Si torna indietro fino alla morula. La morula è cibo per mucose). La mia vita è un tragitto: io so sempre dove non vado. La vostra, una diaspora: avete perduto l’orientamento.

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CAPITOLO NONO
La magnum calibro 50 dell’assassino spuntò di traverso, tra un binario e l’altro, annusando l’aria, quasi che il Capo avesse un odore riconoscibile alla canna, e vangò, senza rumore, l’aria fresca del dirupo.
Il Capo non la vide. La canna non vide lui. Il Capo scendeva a testa in basso e a mani levate. La canna guardava diritto, secondo la logica del cervello. Il Capo si preoccupava per la propria vita. Anche la canna si preoccupava della vita del Capo.
Il Capo decise di scendere più in fretta. La canna di cercare più a lungo.
Il fatto è che siamo gelosi di Dio, pensava la canna. Anche se di poco, di quel poco che ci prende (che ci resta) non ce ne freghiamo affatto. E Dio lo sa con chiarezza: castiga la carne con l’astinenza, la castiga con l’intemperanza. Perché il demonio risiede sui lombi dell’uomo, e cerca sempre un rifugio nel quale rintanarsi. L’angelo prediletto del Signore aprì uno spicchio di mondo per generare il male sulla terra. La battaglia dei sessi - dice un demiurgo - è comunque un fatto antropofagico. Non fu Dio ad aprire una libbra di quella carne per generare il male, ma solo per perseguire il bene. Purtroppo, il piacere della carne suscita il desiderio perpetrato dal demonio. Purtroppo, dice Dio, senza quel desiderio, ma soprattutto senza quel piacere, non vi sarebbe procreazione.
A questo mondo, si sa, non c’è momento che ci facciano godere, senza che un appiglio divino non resista alla più testarda incoscienza.
La canna sogghignò, aggiustando il mirino in palladium sagomato.

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CAPITOLO DECIMO
Rèlena Atridea udì il colpo di rivoltella poco prima di scendere dal treno. Ma non è così: Rèlena Atridea udì il colpo di rivoltella poco prima di risalire sul treno. E non fu la sola (a udire il colpo di rivoltella. Né a salire e scendere dal treno). Rèlena Atridea stette sul chi vive.
Come dire che ne aveva piene le palle di pestaggi e sparatorie. Pensò di tornare indietro, ma vide altri railway travelers pensare di tornare avanti.
Per cui strisciò sotto la pancia del treno. Lì trovò i resti di alcuni pasti espresso (non ancora attaccati dalle formiche mendicanti, perché stomachevoli all’olfatto) e un’equipe di cacche umane. Che fossero umane era facile da dimostrarsi: ciascuna era sovrastata da un plissé di carta igienica (più o meno lunga - dipendeva dalla pennellata del produttore) che sbandierava a piccole folate di vento.
La canna distolse l’oculare dagli appostamenti e dalle trattative. Discese, rinculando, il tratto ferroviario e costeggiò la collinetta lungo una striscia d’erba succosa. In tempo per vedere Rèlena Atridea rotolare dall’altra parte e salire su un vagone di testa con le gambe ad angolo acuto.


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NON CAPITOLO QUINTO
Proclama del Pontefice Rosso di Climax alla Nazione
(Il Proclama, con firma autografa, è in vendita nelle librerie protette dell’impero: da quella tardo pagana della vergine Messalina a quella più recente del Dio parco (dove, tra l’altro, si possono trovare giochi di società e la sceneggiatura completa dei serials televisivi più seguiti).

Compagni e compagne, campagne, niente come la miseria, più della miseria, mi dà orrore. Perché quando penso alla miseria, vedo la miseria, io noto (cioè lo sguardo mi cade su) un cumulo di bambini, tutti magri, tutti in fila, con le mosche agli occhi (poveri bambini) che fingono di piangere (per via del liquido che non scende) e guardano le madri. Madri con seni raggrinziti (che mi vergognerei di mostrare al dottore) i quali cercano di spremere torcendoli come stracci.
La miseria è disagevole, compagni, ammettiamolo senza rimorsi. E se non fosse necessaria io stesso pregherei di debellarla...

(Inutile aggiungere che nell’attacco contro la miseria al Pontefice scendevano lacrime d’impotenza. Sfilate di poveri in moviola cadevano stecchiti davanti all’obiettivo - infastidendo le mosche e costringendo l’operatore ad acrobazie focali. I fotogrammi erano in bianco e nero. La loro sequenza passava dal grigiore dell’ambiente al bianco delle ossa, al nero delle bocche spalancate e concave. I più piccoli s’incuriosivano di tutto. Le madri ruminavano fieno di stagione e lo sputavano in quelle gole come poltiglia filante. Dopo il pianto, lunghi sospiri di pancia).

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CAPITOLO UNDICESIMO
“Lo Zeitung der Zeitverschwendung” pubblicò un’edizione straordinaria (notturna) sulla vita di alcuni possibili sobillatori.
Gente senza patria (apolidi). Uomini e donne che avevano vissuto (o vivevano) relazioni di promiscuità. Che mancavano di sentimenti profondi (duraturi) o di uno specifico ideale, se non il crimine (e non un crimine a sé stante). Gente che a detta degli esperti (agenti di borsa, psicologi, commercianti, artigiani) aveva commesso atti di libidine contro ogni essere vivente (fino alla murena da scoglio), esecrato gli articoli del codice penale e civile (comprese le procedure), deriso il jusnaturalismo e il razionalismo kantiano.
Animali, diceva lo “Lo Zeitung der Zeitverschwendung” più che gente. Più che uomini e donne. O altro.
La matrice comune dei sobillatori partiva da un dato attendibile e sperimentato: il reddito della famiglia d’origine. Se ne traeva la conclusione (statistica) che i sobillatori possono essere o molto poveri o molto ricchi (aut Caesar aut nullus). La classe intermedia (la borghesia) non era compresa in quelle statistiche (a dimostrazione che la verità sta nel mezzo).

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CAPITOLO DODICESIMO
All’alba del terzo giorno le “Journal du huitième jour” s’intromise con un articolo di testa sull’utilità dell’esercito nelle situazioni d’emergenza (il già contestato “De militum natura”).
Fu in quell’occasione che i decani delle più remote Università della terra svelarono ai congressisti il risultato di una ricerca top-secret, detta anche del patriota ottimista (indagine facilitata dalla quasi totale mancanza di patrioti e dalla scomparsa definitiva di ottimisti).
C’era, come si vede, uno stridio terminologico di fondo che, analizzato, non dava chiavi di lettura ma nuove certezze impensabili.
Fu in quell’occasione che ci si persuase che un esercito può funzionare anche in uno stato democratico (perché in nessun esercito funziona la democrazia) e che l’utilità dell’esercito è valida sempre, pure col fato avverso (meglio però se dalla stessa parte).

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NON CAPITOLO SESTO
Proclama del Pontefice Rosso di Climax alla nazione
(Il Proclama apparirà all’improvviso dov’è stabilito che appaia. Nel tempo più consono alla sua apparizione. Gli astrologi credono che nelle lettere sia contenuto un virus, i tecnocrati credono che nell’inchiostro sia contenuto un virus, i cartografi credono che nei fogli sua contenuto un virus, che scatenerà le parole senza distinzione di luogo.)

Non accontentatevi delle spiegazioni, fratelli. Un erudito, un critico di fama, possono convincervi che avete ragione anche quando ce l’avete. Siate sempre disonesti con voi stessi (siate voi stessi). E pensate soprattutto che non essendovi nulla d’immortale la prima delle tentazioni spregievoli è la gloria. Neppure l’universo avrà modo di vantarsi a lungo della sua durata. E voi con lui (che credete di comprenderlo in parte, in piccolissima parte) pensate di racchiuderne un segreto. E non sia così.

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POSTFAZIONE
All’alba inoltrata del terzo giorno, sulle quattro del pomeriggio, mentre il treno filava a velocità insostenibile verso la Capitale, il pastore protestante fu svegliato dal fischio di un rapace, era la dodicesima volta che provava un bisogno impellente di orinare.
Fu mentre si lavava che notò la fiala.
Era una bella fiala, contenuta in un bossolo d’argento massiccio, con tanti numeri sul fianco e fregi d’autore lungo uno scavo mediano (opera, forse, dello stesso Cellini). Una fiala come non ne aveva mai viste, con un liquido, dentro, di natura oleosa. Sigillata da un tappo a pressione, un nastro di velluto rosso, e cera lacca con sopra una sigla per tutta la circonferenza.
Il pastore protestante pensò dovesse trattarsi di un profumo da collezione. Difatti, molta gente colleziona profumi. E aveva perfino conosciuto uno, uno stravagante, che collezionava libri. Ne aveva una quantità smisurata: dallo studio alle scale, dai bagni al garage. E non si stancava mai di comprarne. E più ne comprava più ne avrebbe comprati, perché lo spirito del collezionista, a un certo punto, diventa simile a un vizio. E certi vizi li si brucia, altri li si accantona, altri ancora li si accumula. Ma, soprattutto, ogni vizio è peccato, e come tale va represso.
Così, il pastore protestante intascò la fiala e tornò a dormire fino alla Capitale.
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